Dodici Anni di Nuovi Dinamismi e di Porte Aperte.
Il pontificato di Jorge Mario Bergoglio tra viaggi, riforme e documenti. Di SALVATORE CERNUZIO*

È stato primo in tante cose Papa Francesco. Primo Papa gesuita, primo
Papa originario dell’America Latina, primo a scegliere il nome di Francesco
senza un numerale, primo ad essere eletto con il predecessore ancora in
vita, primo a risiedere fuori dal Palazzo Apostolico, primo a visitare terre mai
toccate da un Pontefice — dall’Iraq alla Corsica —, primo a firmare una
Dichiarazione di Fratellanza con una delle maggiori autorità islamiche. Primo
Papa anche a dotarsi di un Consiglio di cardinali per governare la Chiesa,
ad assegnare ruoli di responsabilità a donne e laici in Curia, ad avviare un
Sinodo che ha coinvolto in prima battuta il popolo di Dio, ad abolire il segreto
pontificio per i casi di abusi sessuali e depennare dal Catechismo la pena di
morte. Primo, ancora, a guidare la Chiesa mentre nel mondo non infuria
«la» guerra ma tante guerre, piccole e grandi, combattute «a pezzi» nei
diversi continenti. Una guerra che «è sempre una sconfitta», come ha
ripetuto negli oltre 300 appelli, anche quando la voce veniva a mancare, che
hanno occupato tutti gli ultimi pronunciamenti pubblici dopo la deflagrazione
delle violenze in Ucraina e Medio Oriente.
Processi
Ma Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, probabilmente non avrebbe
voluto che il concetto di “primo” venisse associato al suo pontificato,
proiettato in questi 12 anni non a raggiungere traguardi o guadagnare
primati, bensì ad avviare «processi». Processi in corso, processi conclusi o
lontani, processi probabilmente irreversibili anche per chi gli succederà sul
soglio di Pietro. Azioni che generano «nuovi dinamismi» nella società e nella
Chiesa — come ha scritto nella roadroad map del pontificato, l’esortazione
apostolica Evangelii gaudium — sempre nell’orizzonte dell’incontro, dello
scambio, della collegialità.
Dalla fine del mondo
«Incominciamo questo cammino, vescovo e popolo», sono state le prime
parole pronunciate dalla Loggia delle Benedizioni, in una tarda serata del 13
marzo 2013, ad una folla che gremiva piazza San Pietro da un mese sotto i
riflettori dopo la rinuncia di Benedetto XVI. A quella folla il neo eletto Papa
76enne, scelto dai confratelli cardinali «dalla fine del mondo», chiese la
benedizione. Con la gente volle recitare un’Ave Maria, incespicando in un
italiano fino a quel momento non esercitato assiduamente, viste le rare visite
a Roma del pastore di Buenos Aires, pronto a fare le valigie subito dopo il
Conclave. E alla gente, il giorno successivo, volle rendere un saluto
ravvicinato recandosi in auto nella parrocchia di Sant’Anna in Vaticano e poi
nella basilica papale di Santa Maria Maggiore, ringraziando la Salus Populi
Romani, protettrice del suo pontificato, a cui ha continuato a rendere
omaggio in ogni momento forte. E proprio nella basilica Liberiana Francesco
ha espresso la volontà di essere sepolto.
Pastore in mezzo al popolo
La vicinanza al popolo, retaggio del ministero argentino, il Papa l’ha
manifestata in tutti gli anni a venire in vari modi: con le visite ai dipendenti
vaticani negli uffici, con i Venerdì della Misericordia nel Giubileo
straordinario del 2016 in luoghi di emarginazione ed esclusione, con i
Giovedì Santo celebrati in carceri, case di cura e centri di accoglienza, con il
lungo tour in parrocchie dei sobborghi romani, con visite e telefonate a
sorpresa. E l’ha manifestata in ogni viaggio apostolico, a partire dal primo,
ereditato dal predecessore, nel luglio 2013 in Brasile per la Giornata
mondiale della gioventù, di cui si ricorda il fotogramma della papa mobile
bloccata in mezzo alla folla.
Primo Papa in Iraq
Quarantasette i pellegrinaggi internazionali del Pontefice argentino,
realizzati in base a eventi, inviti di autorità, missioni da compiere oppure a
qualche «movimento» interiore, come egli stesso rivelò nel volo di ritorno
dall’Iraq. Sì, proprio l’Iraq: tre giorni nel marzo 2021 tra Baghad, Ur, Erbil,
Mosul e Qaraqosh, terre e villaggi con ancora evidenti cicatrici di matrice
terroristica, con il sangue sui muri e le tende degli sfollati lungo le strade, nel
mezzo della pandemia di Covid-19 e di preoccupazioni generali per la
sicurezza. Un viaggio sconsigliato da molti per la salute e il rischio attentati;
un viaggio voluto a tutti i costi. Il viaggio «più bello», ha sempre confidato
Francesco stesso, primo Papa a calpestare la terra di Abramo, là dove
Giovanni Paolo II non riuscì ad andare, e ad avere un colloquio con il
Grande ayatollah sciita Al-Sistani.
La Porta Santa a Bangui e il viaggio più lungo
nel Sud-Est asiatico e in Oceania
Una buona ostinazione lo spinse in Iraq, uguale a quella che nel 2015 lo
portò a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana ferita da una guerra
civile che negli stessi giorni della visita lasciava morti per strada. Nel Paese
africano, dove disse di voler andare anche a costo di buttarsi «col
paracadute», Francesco aprì la Porta Santa del Giubileo straordinario della
Misericordia, con una cerimonia commovente che segna, anch’essa, il
primato di un Anno Santo aperto non a Roma, ma in una zona tra le più
povere del mondo. E si può definire buona ostinazione anche quella che ha
animato la scelta di intraprendere a 87 anni il viaggio più lungo del
pontificato nel settembre 2024: Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor-
Leste, Singapore. Quindici giorni, due continenti, quattro fusi orari, 32.814
km percorsi in aereo. Quattro universi differenti, ognuno a rappresentare i
temi portanti del magistero: fratellanza e dialogo interreligioso, periferie ed
emergenza climatica, riconciliazione e fede, ricchezza e sviluppo a servizio
della povertà.
Da Lampedusa a Juba
E non si può dimenticare, ripercorrendo i viaggi apostolici e le visite
pastorali, la primissima trasferta fuori Roma, nella piccola isola di
Lampedusa, scenario di grandi tragedie migratorie, con la corona di fiori
gettata nel Mediterraneo «cimitero a cielo aperto». Denuncia reiterata anche
nel doppio viaggio a Lesbo (2016 e 2021) nei container e tendoni di profughi
e rifugiati. Nella storia del pontificato, anche il viaggio in Terra Santa (2014);
in Svezia, a Lund (2016) per le celebrazioni dei 500 anni della Riforma
luterana; in Canada (2022) con la richiesta di perdono alle popolazioni
indigene per gli abusi subiti da rappresentanti della Chiesa cattolica. E poi
Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan (2023), quest’ultima tappa
condivisa con il primate anglicano, l’arcivescovo Justin Welby, e il
moderatore dell’assemblea generale della Chiesa di Scozia, Ian
Greenshields, a voler rimarcare la volontà ecumenica di curare le ferite di
un popolo. Le stesse che Francesco aveva implorato di risanare ai leader
sud sudanesi, riuniti nel 2019 per due giornate di ritiro a Santa Marta,
concluse col gesto dirompente di baciare loro i piedi. E ancora, Cuba e Stati
Uniti d’America (2015), viaggio a suggello dell’allacciamento delle relazioni
diplomatiche tra i due Paesi. Un avvenimento storico per il quale Francesco
si è speso per mesi, inviando lettere ai presidenti Barack Obama e Raúl
Castro, per esortarli ad «avviare una nuova fase». Fu Obama stesso a
ringraziare pubblicamente il Pontefice. A L’Avana anche l’incontro con il
patriarca ortodosso di Mosca Kirill e la firma di una Dichiarazione comune
per mettere in pratica l’«ecumenismo della carità», l’impegno dei cristiani per
un’umanità più fraterna. Impegno divenuto, anni dopo, tragicamente attuale
e in qualche modo disatteso con lo scoppio di una guerra nel cuore
dell’Europa.
La firma ad Abu Dhabi del «Documento sulla Fratellanza Umana»
Non ultimo, tra i viaggi, Abu Dhabi (2019) e il Documento sulla Fratellanza
Umana siglato insieme al Grande imam al-Tayeb, a coronamento del
disgelo con l’università sunnita di Al-Azhar iniziato con un abbraccio a Santa
Marta e concluso con la firma di un testo divenuto da subito caposaldo del
dialogo islamo-cristiano, recepito pure in diverse Costituzioni.
Le encicliche
Esperienze, dialoghi, gesti vissuti in questi viaggi sono confluiti nei
documenti del pontificato. Quattro le encicliche: la prima, Lumen Fidei, sul
tema della fede, a quattro mani con Papa Ratzinger; poi la Laudato si’,
grido per invocare un «cambiamento di rotta» per la «casa comune» messa
in ginocchio dalla crisi climatica e sfruttamento e stimolare ad un’azione
volta allo sradicamento della miseria e all’accesso equo alle risorse del
pianeta. La terza, Fratelli tutti, asse portante del magistero, frutto del
Documento di Abu Dhabi, profezia — prima della deflagrazione di nuove
guerre — della fraternità come unica via per il futuro dell’umanità. Infine la
Dilexit nos per ripercorrere tradizione e attualità del pensiero «sull’amore
umano e divino del cuore di Gesù» e lanciare un messaggio a un mondo
che sembra aver perso il cuore.
Esortazioni apostoliche e Motu propri
Sette, le esortazioni apostoliche: dalla già citata Evangelii gaudium fino a
C’est la confiance, per i 150 anni della nascita di santa Teresa di Gesù
Bambino. In mezzo, le esortazioni post-sinodali — Amoris laetitia (Sinodo
sulla famiglia), Christus vivit (Sinodo sui giovani), Querida Amazonia
(Sinodo per la Regione Pan-Amazzonica) —, la Gaudete et exsultate sulla
chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, la Laudate Deum, ideale
seguito della Laudato si’ per completarne l’appello a reagire per la madre
Terra prima di un «punto di rottura».
Quasi sessanta i Motu propri per riconfigurare le strutture della Curia
romana e il territorio della diocesi di Roma, modificare il Diritto canonico e
l’ordinamento giudiziario vaticano, per emanare norme e procedure più
stringenti nella lotta agli abusi. È il caso di Vos estis lux mundi, documento
che ha recepito risultati, indicazioni, raccomandazioni del Summit sulla
protezione dei minori in Vaticano, nel febbraio 2019. Un vertice che ha
rappresentato l’acme del lavoro di contrasto alla pedofilia del clero e agli
abusi non solo sessuali; un’espressione della volontà della Chiesa di agire
con verità e trasparenza in atteggiamento penitenziale. Con Vos estis lux
mundi Francesco ha stabilito nuove procedure per segnalare molestie e
violenze e introdurre il concetto di accountability, assicurare, cioè, che
vescovi e superiori religiosi rendano conto del loro operato.
La riforma della Curia
Processi, quindi. Quelli di riforma sono stati una costante del papato di
Francesco, che non ha voluto disattendere le raccomandazioni dei cardinali
nelle congregazioni pre-Conclave che chiedevano al futuro nuovo Pontefice
la ristrutturazione della Curia romana e in particolare delle finanze vaticane,
per anni al centro di scandali. E da subito il Papa ha costituito un Consiglio
di cardinali, il C9 (divenuto negli anni C6 e C8 con l’avvicendarsi dei vari
membri), un piccolo “senato” per coadiuvarlo nel governo della Chiesa
universale e lavorare alla riforma della Curia. Accorpamenti di Dicasteri e
altre modifiche di titoli e organigrammi sono stati il segnale del work in
progress; step finale è stata la Costituzione apostolica Praedicate
evangelium: attesa per anni, è stata promulgata nel 2022, senza preavvisi e
preamboli, introducendo significative novità. Tra queste, l’istituzione del
nuovo Dicastero per l’Evangelizzazione, presieduto direttamente dal
Pontefice, e il coinvolgimento dei laici «in ruoli di governo e di
responsabilità». In questa ondata di cambiamento vanno inquadrate le
nomine del primo prefetto laico, Paolo Ruffini, al Dicastero per la
Comunicazione, della prima «prefetta» al Dicastero per gli Istituti di Vita
Consacrata, suor Simona Brambilla, e della prima governatrice dello Stato
della Città del Vaticano, suor Raffaella Petrini.
Le donne
Le donne, un altro filone di questi anni di Bergoglio sul soglio di Pietro, il
Papa che più di altri ha affidato a figure femminili ruoli di responsabilità, che
ha istituito due commissioni per lo studio delle diaconesse, che non ha mai
smesso di ricordare il «genio» femminile e la dimensione materna della
Chiesa (che «è donna» perché «è la Chiesa, non il Chiesa»), che ha messo
a fianco a cardinali e vescovi sui tavoli dell’ultimo Sinodo sulla Sinodalità,
suore, missionarie, professoresse, esperte, teologhe, alle quali ha dato
peraltro per la prima volta diritto di voto.
“Tutti, tutti, tutti”
Un’apertura, come tante effettuate da Francesco. Aperture e non strappi, né
salti; per alcuni troppo veloci, per altri troppo prudenti. Processi, in realtà,
anche questi. Come la concessione dei sacramenti ai divorziati risposati,
nell’ottica dell’Eucarestia come «farmaco» per i peccatori e non «nutrimento
per i perfetti»; l’accoglienza alle persone Lgbtq+ con l’invito alla vicinanza
pastorale, perché all’interno della Chiesa c’è posto per «tutti, tutti, tutti»; la
pervicacia nel dialogare con rappresentanti di altre confessioni cristiane e
religioni, dopo secoli di pregiudizi e sospetti, in virtù anche
dell’«ecumenismo del sangue». Lo sguardo alla Cina, pure, con l’Accordo
provvisorio per le nomine dei vescovi, siglato nel 2019 e rinnovato tre volte.
Uno spiraglio di dialogo, tra inciampi e riprese, con un «nobile popolo» che
ha desiderato per tutti questi anni visitare. Desiderio risalente alle
aspirazioni missionarie della gioventù.
Missionarietà e sinodalità
La missione, anche questo tema cardine. Anzi, la «missionarietà», invito
ricorrente di testi e omelie, di pari passo con la «sinodalità», altro termine
risuonato tante volte in questi dodici anni. Alla «sinodalità» il Papa ha
dedicato ben due sessioni del Sinodo (2023 e 2024), rinnovando struttura e
funzionamento dell’assise, intuendo la necessità di far partire il cammino
sinodale «dal basso» e istituendo pure dieci gruppi di studio per
approfondire, dopo i lavori, temi dottrinali, teologici e pastorali.
Poveri e migranti
Di questo pontificato si ricorderanno poi gli assiomi che hanno incapsulato
intere realtà ecclesiali, politiche e sociali: «Cultura dello scarto»,
«globalizzazione dell’indifferenza», «Chiesa povera per i poveri», «Chiesa in
uscita», «pastori con l’odore delle pecore », «etica globale della solidarietà».
Resterà l’attenzione ai poveri con l’istituzione nel 2017 di una Giornata
mondiale loro dedicata, sempre caratterizzata dal pranzo del Papa in Aula
Paolo VI al fianco di clochard e senzatetto.
Resterà l’insegnamento sui migranti, declinato nei quattro verbi «accogliere,
proteggere, promuovere e integrare», quali indicazioni programmatiche per
affrontare «una delle più grandi tragedie di questo secolo». Resterà pure
l’invito a elaborare «onorevoli compromessi» come soluzioni ai conflitti che
dilaniano l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa.
L’impegno per la pace
Quei conflitti, assillo degli ultimi anni, denunciati in appelli roboanti e lettere
a nunzi apostolici e a popolazioni vittime di violenze, alleviati attraverso
videochiamate — su tutte, quelle quotidiane alla parrocchia di Gaza — o
missioni di cardinali e l’invio di beni di prima necessità. «Non pensavo di
essere un Papa in tempo di guerra», confidava nel primo e unico podcast
con i media vaticani, realizzato per il decennale dell’elezione. La pace è
stato l’obiettivo costante. Per la pace Papa Francesco ha chiesto
continuamente preghiere, indetto Giornate di digiuno e orazione — per Siria,
Libano, Afghanistan, Terra Santa — che coinvolgessero i fedeli di ogni
latitudine; ha consacrato Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria nel
2022; ha organizzato momenti storici come la piantumazione di un ulivo nei
Giardini vaticani, l’8 giugno 2014, con i presidenti di Israele, Shimon Peres,
e Palestina, Mahmoud Abbas.
Per la pace ha compiuto, il Papa, gesti irrituali come quello di salire in
macchina e recarsi, il giorno dopo la prima bomba sganciata su Kyiv,
nell’ufficio dell’ambasciatore russo presso la Santa Sede, Alexander
Avdeev, tentando di avviare contatti col presidente Putin e assicurare la
disponibilità per la mediazione. Più volte Francesco ha redarguito capi di
Stato e di Governo, ha ammonito i signori della guerra che renderanno
conto davanti a Dio delle lacrime sparse tra i popoli, ha stigmatizzato il
fiorente mercato delle armi lanciando la proposta di usare le spese degli
armamenti per la costituzione di un Fondo mondiale che debelli la fame. Ha
chiesto di costruire ponti e non erigere muri, ha incitato ad anteporre il bene
comune alle strategie militari, talvolta venendo mal interpretato e criticato.
Innovazioni
Critiche non sono mancate in questi anni nei confronti del Papa argentino,
che ha commentato cordate e venti contrari sempre con quell’umorismo che
è la cosa «che più avvicina alla grazia di Dio». Francesco ha interrogato e
stupito, ha fatto forse storcere il naso a qualcuno per la rottura di tabù e lo
scombussolamento di protocolli e vecchie consuetudini, o per la
rimodulazione dello stesso papato con un diverso abbigliamento, una
diversa residenza, una inusuale gestualità e prossemica, un originale stile
pastorale. O con l’apparizione in dirette web e programmi tv, con l’uso
dell’account X @Pontifex, in 9 lingue, quale canale per veicolare messaggi
di necessaria immediatezza e diffusione.
Momenti difficili e problemi di salute
In questi anni sempre densi, con rarissimi momenti di riposo (e la
cancellazione delle tradizionali vacanze papali a Castel Gandolfo), non sono
mancati momenti difficili, tra processi giudiziari — in testa il lungo e
complesso processo per la gestione dei fondi della Santa Sede —, il caso
Vatileaks 2, scandali di abusi e corruzione, la pubblicazione di libri privi di
«nobiltà e umanità». E non sono mancati i tormenti dati dalla salute tra le
operazioni al Gemelli del 2021 e del 2023, il ricovero nel medesimo
Policlinico romano, sempre nel 2023, per complicazioni respiratorie, poi i
raffreddori, le influenze, i dolori al ginocchio che l’hanno costretto sulla sedia
a rotelle negli ultimi tre anni. Infine il ricovero più lungo — 38 giorni — a
causa della polmonite bilaterale. Problemi che non gli hanno impedito
comunque di farsi presente e vicino alla gente come si è visto in queste
ultime settimane, dopo le dimissioni dall’ospedale, con le uscite a sorpresa
in piazza San Pietro, nella basilica Vaticana e a Santa Maria Maggiore.
Dati statistici
Tante difficoltà che non hanno mai impedito l’intensa attività o la presenza
agli eventi. A darne contezza alcuni dati statistici: oltre 500 udienze generali,
dieci Concistori per la creazione di 163 nuovi cardinali che hanno restituito
carattere di universalità al volto della Chiesa; oltre 900 canonizzati (inclusi
tre predecessori: Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Paolo VI); gli “Anni
speciali”, tra cui quelli per la Vita consacrata (2015-2016), per san Giuseppe
(2020-2021) e per la Famiglia (2021-2022); quattro Giornate mondiali della
gioventù: Rio de Janeiro, Cracovia, Panamá e Lisbona. Due Giubilei: quello
straordinario sulla Misericordia del 2016 e l’ordinario del 2025, in corso, sul
tema “Pellegrini di speranza”.
La Statio orbis durante la pandemia di Covid-19
È stato un Papa, Jorge Mario Bergoglio, che ha ricercato la prossimità con
il grande pubblico anche attraverso interviste, libri, prefazioni, autobiografie.
Un Papa del quale, forse, più delle tante parole e dei tanti scritti, si ricorderà
un’immagine: lui, solo, claudicante, sotto la pioggia, nel silenzio generale del
lockdown e l’unico sottofondo delle sirene di un’ambulanza, mentre
attraversa piazza San Pietro nel tempo sospeso della pandemia. È la Statio
orbis del 27 marzo 2020, con il mondo chiuso in casa a guardare in diretta
streaming un uomo anziano che sembrava portare sulle spalle tutto il peso
di una tragedia che ha ribaltato quotidianità e abitudini. L’umanità era afflitta
ma il Papa parlava di speranza. E di fratellanza: «Ci siamo resi conto di
trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo
tutti chiamati a remare insieme».
*pubblicato su L’Osservatore Romano del 21 aprile 2025 (edizione speciale)



